Trent’anni fa, la caduta del Muro di Berlino aprì un dibattito sull’integrazione fino ad oggi irrisolto
Originally published in Altro & Oltre, Trimestrale di sociopolitica e cultura. December 2019 – VIII – nr. 33.
Trent’anni fa cadeva il Muro di Berlino, un confine politico e fisico, millequattrocento chilometri di recinzioni, tratti di cemento e filo spinato che separavano ermeticamente due mondi. Di quel 9 novembre 1989 mi ricordo le immagini in televisione, con migliaia di persone arrampicate sul muro per farlo a pezzi con il martello, e i frammenti che anche qualche cadorino si era accaparrato in un viaggio lampo a Berlino per assistere a quell’evento storico. Con la risonanza mediatica dovuta, si festeggiava la fine di un regime totalitario, di fatto celebrando l’ingresso della sua popolazione nella società di consumo, in un capitalismo idealizzato e enfatizzato da decenni di inaccessibilità sistematica ai prodotti occidentali.
A Francoforte, i cittadini della DDR cominciarono ad arrivare già dal giorno dopo la caduta del Muro. Chi aveva parenti, chi conoscenti, e chi voleva semplicemente conoscere la città con i grattacieli vista e rivista in televisione; le strade e i parcheggi si riempirono di Trabant, le leggendarie auto simbolo della motorizzazione di massa della Germania Est. Entravano in città con le loro carrozzerie crema, verdi, carta da zucchero o bicolore rosse e bianche. Secondo il Frankfurter Allgemeine Zeitung, gli abitanti di Francoforte lasciavano dei biglietti di benvenuto sul parabrezza delle auto con targa della DDR. In un giorno, si formarono davanti agli uffici comunali tre chilometri di fila per il ritiro del Begrüßungsgeld, la somma di benvenuto di 100 Marchi che spettava ai cittadini dell’Est. Chi non era in fila, passeggiava per la città ammirando la varietà dei banconi dei mercati, cercando la propria parte di privilegio materiale nelle vetrine dei negozi dello Zeil, il viale commerciale della città.
Ciò che seguì a quei giorni di stupore e euforia ha a che fare con la situazione sociale della Germania Ovest e con le paure collettive della sua popolazione. L’apertura del confine era risultata nell’immediato movimento migratorio verso occidente, a ritmo di migliaia di persone a settimana. I quotidiani fecero una previsione di 1,5 milioni di migranti attesi per il 1990, tra cittadini della DDR, richiedenti asilo e reimmigrati tedeschi (di fatto, tra novembre 1989 e settembre 1990 arrivarono 290.000 persone dalla DDR). Politici e critici pronosticarono il collasso del sistema sociale della Germania Ovest. Il tasso di disoccupazione relativamente alto e la carenza abitativa ormai cronica nella BRD furono terreno fertile per comportamenti revanscisti e discriminatori nei confronti dei nuovi arrivati: se, prima della caduta della frontiera, l’opinione pubblica era per lo più favorevole ad accogliere i cittadini dell’Est, nel corso di pochi mesi l’81% si diceva propenso ad accogliere solo coloro che si erano previamente procurati una casa e un lavoro. Questi i dati tratti da un sondaggio dell’Istituto EMNID (1990).
I resoconti e le analisi dei media cominciarono presto a tingersi di toni drammatici. In tutto il paese si registrarono episodi di discriminazione nei confronti dei migranti. Solo per citarne alcuni: a Colonia, venne appiccato il fuoco ad un centro accoglienza appena edificato; un episodio simile successe a Stoccarda; ad Amburgo, i poster affissi dal comune con messaggi di benvenuto furono oggetto di atti di vandalismo. Un po’ dappertutto volavano insulti, a volte anche sassi. I cittadini della DDR vennero chiamati “i nuovi turchi”, nome dalla connotazione razzista ereditato dai tempi dei Gastarbeiter.
Un salto in avanti, nel 2015. Durante la cosiddetta “crisi dei rifugiati”, la storia sembra ripetersi. Si pronostica l’arrivo di almeno un milione di rifugiati in poco tempo e la società civile si organizza rapidamente all’insegna della solidarietà: si celebra la cultura del benvenuto (Willkommenskultur) nell’accoglienza dei rifugiati; chi aspetta alla stazione con un thè caldo, chi con un orsacchiotto. Ma l’atmosfera finisce per intiepidirsi nuovamente: nel corso di pochi mesi, l’opinione pubblica ritorna sui propri passi, esprime remore e paure, immaginando un legame diretto tra numero di rifugiati e aumento del rischio del terrorismo islamico. Non mancano atti di violenza xenofoba dell’ordine di quelli avvenuti nel 1990.
Eppure, la cultura del benvenuto non è scomparsa; sta riprendendo piede, soprattutto tra le generazioni più giovani, che si dimostrano sempre più aperte alla diversità. Secondo un sondaggio recente dell’Istituto Mercator di Berlino (2018), a definire l’appartenenza non sarebbe più tanto la nazionalità, quanto la conoscenza della lingua e il rispetto delle istituzioni tedesche. Per molti, i rifugiati arrivati nel 2015 sono ormai tedeschi a pieno titolo. Le organizzazioni che militano per la solidarietà e contro l’estrema destra aumentano. Un quadro ottimista che dipinge un paese multietnico, con una società civile sempre più consapevole della propria diversità culturale e attiva nella lotta contro la xenofobia.