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Famiglie allargate per scelta

Convivere nella metropoli dei single

Originally published in Altro & Oltre, Trimestrale di sociopolitica e cultura. Nov 2020 – VVI – nr. 35.

Il piccolo auditorium del Museo d’Architettura di Francoforte riverbera un vocio allegramente disordinato.  Nei quattro angoli della sala siedono piccoli gruppi di persone pronte a iniziare una sessione di speed dating. Siamo nell’autunno del 2018. Un centinaio di persone di tutte le età si muovono velocemente da una posizione all’altra, raccolgono prospetti, scambiano biglietti da visita. La serata, organizzata dal Comune, mira a presentare al pubblico collettivi e associazioni impegnati in progetti abitativi innovativi. Modi di vivere che esulano dal concetto di nucleo familiare tradizionale.

Photo by Moritz Bruder on Unsplash

La famiglia ha smesso da tempo di essere il modello di vita più ambito. “I giorni delle “famiglie allargate” sono finiti, – si legge sul sito del Network per le Nuove Forme del Vivere Comune – cresce il bisogno di forme di vita alternative e sostenibili.” Il network apre le proprie porte al pubblico regolarmente e offre consulenze a coloro che vogliono fondare un progetto di questo genere. Il Comune si impegna a promuovere questo tipo di progetti creando possibilità di affitto e acquisto di immobili adeguati a prezzi abbordabili. Nei quartieri di nuova costruzione, per esempio, il quindici percento della superficie abitativa deve essere dedicato a tali progetti abitativi alternativi. Ma l’iter non è semplice: per chi desidera fare questa scelta, creare uno statuto, trovare i finanziamenti, risolvere le questioni tecniche e architettoniche sono solo alcuni tra gli aspetti complessi di un tale progetto.

“L’idea di tornare a casa la sera, dopo il lavoro, e di chiudermi nel mio piccolo appartamento mi deprime. Mi piace, invece, l’idea di abbattere il muro della sfera privata, voglio condividere la mia casa con persone affini che hanno la mia stessa visione.”

Thomas, fondatore di un gruppo abitativo.

Questo mi racconta Thomas, trentottenne dal fare estroverso quando, il giorno dopo, mi ritrovo a fare colazione proprio in uno di questi progetti. Thomas ha coltivato per anni la sua visione del vivere insieme in questo appartamento, che condivide con altre sei persone. Ogni nucleo familiare ha una camera da letto. Il salotto e la cucina sono spazi comuni. Tutto viene condiviso e le regole vengono rispettate. Il gruppo è piuttosto omogeneo, giovani single o famiglie, tutti di meno di quarant’anni.

Questa mattina si riunisce l’assemblea generale di un nuovo gruppo che Thomas e la sua compagna Barbara hanno appena fondato. Da anni minaccia lo sfratto da quest’appartamento centralissimo che stuzzica la speculazione immobiliare. “Prima di farci sbattere fuori, ce ne andiamo noi.” Visto che non tutti i coinquilini sono interessati a ritrovarsi in un nuovo progetto, Thomas si è attivato nel network per trovare candidati disposti a impegnarsi con lui nella creazione di un nuovo gruppo: “Trovare le persone giuste è cruciale per poter suddividere i compiti e le responsabilità in un processo che può durare anni”, mi dice addentando un panino alla marmellata.

Il gruppo dei candidati per il nuovo progetto ha un profilo demografico simile ai coinquilini attuali. Mentre si cerca di raddrizzare il proiettore e mettere a fuoco l’immagine, si parla, appunto, di visione. Sul muro appare la domanda, in nero si bianco, “come voglio vivere nel futuro?”. Una domanda semplice solo in apparenza. Thomas lo sa e sa anche che ci vorranno molti altri incontri prima di poter stilare lo statuto del gruppo. Dare concretezza alle idee, alle sensazioni, è l’esercizio più difficile.

Come primo compito, viene chiesto ai dieci partecipanti di scrivere su un foglio, in modo anonimo, quali sono le ragioni che guidano una tale scelta di vita. Sfuggire alla solitudine urbana, voler crescere i figli collettivamente, confidare nella solidarietà del gruppo e nel principio dell’aiuto reciproco a lungo termine, scampare all’orizzonte limitato di una società costruita intorno all’individualismo, raggirare un mercato immobiliare sempre più tiranno. Qualunque sia la ragione, a spingerla c’è un ideale politico, romantico, o strettamente pragmatico. Non stento a immaginare che mettersi d’accordo sulla visione comune sia solo il primo passo verso un equilibrio delicato tra compromessi e aspettative.

Due anni dopo quel primo incontro, Thomas mi scrive che è riuscito a concretizzare il suo progetto. Non esattamente rivestendo il ruolo di fondatore come desiderava, visto che si è aggregato ad un gruppo già esistente. Ora vive nella casa del progetto NiKa, nel discusso quartiere della stazione centrale. Un immobile comprato e rinnovato da un collettivo che rivendica un’identità politica forte; che milita contro la gentrificazione e contro la speculazione immobiliare folle a favore di un modo di vita inclusivo. Il quartiere della stazione è, infatti, oggetto di speculazioni immobiliari massive che ne stanno trasformando il paesaggio sociale. La tendenza dimostra una crescita rapida nella domanda di questi progetti. Sono ormai trenta i gruppi attivi a Francoforte, mentre altri quindici sono in costruzione. Le istituzioni rispondono, seppur timidamente, dando spazio a queste forme di sperimentazione interessanti. A Thomas e ai suoi coinquilini non resta che continuare ad andare d’accordo.

Fun fact: il 48% della popolazione di Francoforte vive da sola. La città è seconda solo a Berlino (51%). La media tedesca, 38%.(NIM 2016)

Come affrontare il turismo nell’era di Instagram

Il social con un miliardo di utenti al mese è diventato uno strumento indispensabile per il marketing del turismo

Originally published in Altro & Oltre, Trimestrale di sociopolitica e cultura. Marzo 2020 – VIV – nr. 33.

I social sono diventati una fonte di ispirazione inestimabile per il turismo. Secondo una recente inchiesta dell’agenzia MDG Advertizing, 40% dei giovani inglesi tra i 20 e i 35 anni organizza le proprie vacanze usando Instagram per ispirarsi – e il cellulare per prenotare. Sempre più alberghi, ristoranti e luoghi di interesse curano la propria instagrammabilità, ovvero l’abilità nel creare sfondi ideali per un post. Il social, che vanta un miliardo di utenti attivi mensilmente (TechCrunch, 2018), deve il suo successo a contenuti visivamente accattivanti e interattivi che, poiché generati dagli utenti, risultano credibili.

Secondo uno studio del portale Statista, le aziende stanno cogliendo l’opportunità commerciale offerta dal content marketing: se nel primo trimestre del 2017 l’investimento pubblicitario globale su Instagram ammontava a 700 milioni di dollari, si prevede una cifra pari ai 6,8 miliardi nel 2020. Tendenza in crescita in un clima di concorrenza spietata, che vede l’emergenza costante di nuove piattaforme.

Anche gli influencer, che di Instagram fanno spesso il proprio lavoro, si stanno affermando come figure professionali. Quelli celebri vantano centinaia di migliaia o milioni di seguaci e vengono gestiti da agenzie specializzate. Eppure, in un mondo digitale che evolve e si consuma a ritmi vertiginosi, queste star sono per molti brand ormai bruciate: troppi contenuti promozionali, troppo espliciti. E così i micro-influencer, persone comuni con un numero di follower inferiore a mille, stanno prendendo piede. Non offrono risonanza, ma trasmettono un senso di autentica intimità. Insomma, chiunque abbia una presenza sui social è potenzialmente un medium – per contenuti e pubblicità.

I curiosi risvolti del turismo instagrammabile

Nel 2015, il comitato turistico del Lago Wanaka, in Nuova Zelanda, decide di assumere degli influencer per promuovere le bellezze di questa zona poco conosciuta. Il risultato: un aumento del turismo del 14% in un anno, per cui le autorità ringraziano le foto fascinose appositamente pubblicate su Instagram. Un destino simile hanno avuto altre località, come Trolltunga in Norvegia, una lingua di roccia a picco su un fiordo diventata meta ambita da turisti in cerca di scenografie mozzafiato. Quello che le foto non rivelano sono le decine di persone in coda per un ritratto in apparenza solitario. 

Infatti, il fenomeno ha anche dei risvolti inattesi come nel caso del lago bavarese Königsee, altra meta popolare tra gli influencer che si fanno immortalare in una vasca naturale a ridosso del lago. Di fronte al relativo aumento di un turismo incauto, mal attrezzato e inquinante, i responsabili del parco naturale hanno fatto appello al senso civico delle duecento persone che ogni giorno sono disposte a correre dei rischi seri per una foto. Un simile sovraffollamento caratterizzava l’ascesa al Monte Bianco, il cui accesso è stato regolamentato. 

I social offrono ai singoli un’opportunità inestimabile non solo di scoprire luoghi di interesse, ma anche di organizzare viaggi personalizzati. Per gli operatori turistici di comunità economicamente marginalizzate, costituiscono ormai uno strumento di lavoro prezioso. L’impatto reale che i social hanno sul turismo varia caso per caso: se alcune destinazioni hanno potuto guadagnare in popolarità, per altre la viralità ha contribuito – certo insieme ad altri fattori – a generare fenomeni di massa indesiderati.

Piccolo breviario per un turismo connesso e sostenibile

Il primo passo per le istituzioni e le aziende che si occupano di turismo è creare una presenza sui social costante e sorretta da una strategia mirata. Ma l’impegno non finisce qui. I risultati del proprio lavoro vanno analizzati regolarmente. Per capire, per esempio, se l’energia spesa nei social si traduce in prenotazioni, si può collaborare con gli operatori locali ed elaborare statistiche apposite. La strategia va poi adattata ai risultati ottenuti. Lo scopo è accogliere il turismo in modo sostenibile, arricchendo economicamente e culturalmente le comunità locali nel rispetto delle persone e dell’ambiente.

Una nota conclusiva proprio sulla sostenibilità. Come scritto in precedenza, la forza dei social risiede nella loro autenticità; eppure, quest’ultima è un’invenzione. Instagram tende a imporre un’iconografia omologata. Le sue immagini possono essere fuorvianti o comunque non rappresentative delle realtà locali. Alcuni ricercatori hanno riscontrato una similitudine inquietante tra l’ideologia coloniale e il particolare esotismo promosso dai social: quando luoghi e persone diventano oggetti di consumo, lo sguardo occidentale si afferma nel suo carattere dominante a scapito delle periferie del pianeta. Il viaggiare di Instagram appartiene ai privilegiati. L’impatto che i social hanno sulle vite di tutti, d’altronde, non si limita al viaggio, ma riguarda l’integralità del nostro essere in questo mondo postmoderno, iperconnesso e attraversato da ineguaglianze laceranti.


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L’altra faccia del Muro

Trent’anni fa, la caduta del Muro di Berlino aprì un dibattito sull’integrazione fino ad oggi irrisolto

Originally published in Altro & Oltre, Trimestrale di sociopolitica e cultura. December 2019 – VIII – nr. 33.

Trent’anni fa cadeva il Muro di Berlino, un confine politico e fisico, millequattrocento chilometri di recinzioni, tratti di cemento e filo spinato che separavano ermeticamente due mondi. Di quel 9 novembre 1989 mi ricordo le immagini in televisione, con migliaia di persone arrampicate sul muro per farlo a pezzi con il martello, e i frammenti che anche qualche cadorino si era accaparrato in un viaggio lampo a Berlino per assistere a quell’evento storico. Con la risonanza mediatica dovuta, si festeggiava la fine di un regime totalitario, di fatto celebrando l’ingresso della sua popolazione nella società di consumo, in un capitalismo idealizzato e enfatizzato da decenni di inaccessibilità sistematica ai prodotti occidentali.

A Francoforte, i cittadini della DDR cominciarono ad arrivare già dal giorno dopo la caduta del Muro. Chi aveva parenti, chi conoscenti, e chi voleva semplicemente conoscere la città con i grattacieli vista e rivista in televisione; le strade e i parcheggi si riempirono di Trabant, le leggendarie auto simbolo della motorizzazione di massa della Germania Est. Entravano in città con le loro carrozzerie crema, verdi, carta da zucchero o bicolore rosse e bianche. Secondo il Frankfurter Allgemeine Zeitung, gli abitanti di Francoforte lasciavano dei biglietti di benvenuto sul parabrezza delle auto con targa della DDR. In un giorno, si formarono davanti agli uffici comunali tre chilometri di fila per il ritiro del Begrüßungsgeld, la somma di benvenuto di 100 Marchi che spettava ai cittadini dell’Est. Chi non era in fila, passeggiava per la città ammirando la varietà dei banconi dei mercati, cercando la propria parte di privilegio materiale nelle vetrine dei negozi dello Zeil, il viale commerciale della città.

Ciò che seguì a quei giorni di stupore e euforia ha a che fare con la situazione sociale della Germania Ovest e con le paure collettive della sua popolazione. L’apertura del confine era risultata nell’immediato movimento migratorio verso occidente, a ritmo di migliaia di persone a settimana. I quotidiani fecero una previsione di 1,5 milioni di migranti attesi per il 1990, tra cittadini della DDR, richiedenti asilo e reimmigrati tedeschi (di fatto, tra novembre 1989 e settembre 1990 arrivarono 290.000 persone dalla DDR). Politici e critici pronosticarono il collasso del sistema sociale della Germania Ovest. Il tasso di disoccupazione relativamente alto e la carenza abitativa ormai cronica nella BRD furono terreno fertile per comportamenti revanscisti e discriminatori nei confronti dei nuovi arrivati: se, prima della caduta della frontiera, l’opinione pubblica era per lo più favorevole ad accogliere i cittadini dell’Est, nel corso di pochi mesi l’81% si diceva propenso ad accogliere solo coloro che si erano previamente procurati una casa e un lavoro. Questi i dati tratti da un sondaggio dell’Istituto EMNID (1990).

I resoconti e le analisi dei media cominciarono presto a tingersi di toni drammatici. In tutto il paese si registrarono episodi di discriminazione nei confronti dei migranti. Solo per citarne alcuni: a Colonia, venne appiccato il fuoco ad un centro accoglienza appena edificato; un episodio simile successe a Stoccarda; ad Amburgo, i poster affissi dal comune con messaggi di benvenuto furono oggetto di atti di vandalismo. Un po’ dappertutto volavano insulti, a volte anche sassi. I cittadini della DDR vennero chiamati “i nuovi turchi”, nome dalla connotazione razzista ereditato dai tempi dei Gastarbeiter.

Un salto in avanti, nel 2015. Durante la cosiddetta “crisi dei rifugiati”, la storia sembra ripetersi. Si pronostica l’arrivo di almeno un milione di rifugiati in poco tempo e la società civile si organizza rapidamente all’insegna della solidarietà: si celebra la cultura del benvenuto (Willkommenskultur) nell’accoglienza dei rifugiati; chi aspetta alla stazione con un thè caldo, chi con un orsacchiotto. Ma l’atmosfera finisce per intiepidirsi nuovamente: nel corso di pochi mesi, l’opinione pubblica ritorna sui propri passi, esprime remore e paure, immaginando un legame diretto tra numero di rifugiati e aumento del rischio del terrorismo islamico. Non mancano atti di violenza xenofoba dell’ordine di quelli avvenuti nel 1990.

Eppure, la cultura del benvenuto non è scomparsa; sta riprendendo piede, soprattutto tra le generazioni più giovani, che si dimostrano sempre più aperte alla diversità. Secondo un sondaggio recente dell’Istituto Mercator di Berlino (2018), a definire l’appartenenza non sarebbe più tanto la nazionalità, quanto la conoscenza della lingua e il rispetto delle istituzioni tedesche. Per molti, i rifugiati arrivati nel 2015 sono ormai tedeschi a pieno titolo. Le organizzazioni che militano per la solidarietà e contro l’estrema destra aumentano. Un quadro ottimista che dipinge un paese multietnico, con una società civile sempre più consapevole della propria diversità culturale e attiva nella lotta contro la xenofobia.

Il viaggiare insolito di mio padre

Uomo del suo tempo, ma anche interprete della modernità e del cambiamento

Originally published in Altro & Oltre, Trimestrale di sociopolitica e cultura. October 2019 – VIII – nr. 31. In memory of Ennio Rossignoli, my father.

Mio padre non amava viaggiare. Eppure, sono stati proprio due viaggi a segnare i momenti chiave della sua esistenza, riti di passaggio necessari. Il primo durante la guerra, per scampare ai bombardamenti su Trieste. Una bomba aveva colpito il palazzo in cui la famiglia viveva, risparmiando miracolosamente il loro appartamento e lasciando come sola cicatrice una fessura nella tela di un dipinto a olio appeso in salotto. Un veliero in balìa della tempesta, me lo ricordo ancora, che sua madre aveva conservato come memento mori. Si trasferirono ad Annone Veneto. Quella fuga da Trieste significò, se non di evitare il marchio profondo e indelebile della paura, almeno di assicurare alla famiglia l’integrità fisica e la salvezza dagli stenti. Quegli anni, in cui la loro dimora veneta fu a lungo occupata, servirono a plasmare il suo pensiero antifascista.  Il secondo cruciale viaggio della sua vita fu il trasferimento a Cortina. Successe per caso, prima una vacanza, poi un’altra, e per finire accettò un’offerta per l’insegnamento. Di lì non si sarebbe più mosso: “Perchè andare a vedere il mondo, quando tutto il mondo viene a Cortina?”, era solito dire, come ricordano gli amici. Per il mezzo secolo successivo ci avrebbe veramente incontrato il mondo.

Per lui che non amava le crode se non come oggetto di contemplazione, la conca diventò un crocevia di incontri che, benché circoscritti nello spazio e nel tempo, si elevavano a amicizie affettuose spesso arricchite da aneddoti straordinari. Come quella volta in cui doveva intervistare Andreotti nel corso della sua trasmissione “Il Punto”. Rimasto bloccato nel traffico a causa di un incidente, arrivò con tre quarti d’ora di ritardo trafelato, desolato, scusandosi in preda all’imbarazzo. Andreotti sdrammatizzò dicendo: “Professore, ma sono io che sono arrivato in anticipo.” Dell’episodio si ricorda mio fratello, che era ancora un bambino. Oppure quando, durante una presentazione dell’estate letteraria, l’allora Presidente della Repubblica Cossiga gli fece trasmettere un biglietto su cui c’era scritto: “Caro Rossignoli, posso prendere la parola?” Quel foglietto lo conserviamo ancora. Questi e molti altri sono i ricordi della nostra infanzia mondana, quando da bambini un po’ curiosi e un po’ annoiati ci addormentavamo attorno alle stufe cortinesi. 

Quando non era impegnato altrove, mio padre amava leggere a casa. A volte rileggeva un libro tre, quattro volte nel corso di pochi anni. Scompariva volentieri nella sua biblioteca, rovistava tra i libri e sapeva sempre esattamente dove trovare il titolo che stava cercando. Quel suo ordine mentale non doveva essere turbato; ogni spostamento era oggetto di rimprovero. A me aveva saputo trasmettere il piacere per quell’indugiare tra le pagine, sentirne l’odore, apprezzarne la storia. Era proprio lui a farmi scoprire autori nuovi, a invitarmi a leggere, a incoraggiare la mia curiosità letteraria. Mettevo disordine, ma lui mi accettava di buon grado come elemento entropico in quel suo universo. Da una certa distanza, e sempre con discrezione, cercava di guidare le mie letture, pur non giudicando mai le mie scelte anche quando non le condivideva, perché il suo credo era il rispetto del capitale intellettuale di ciascuno. Non censurava né temi, né titoli.  Amante del sapere enciclopedico, nello stesso tempo sensibile alle sfumature del pensiero, era figlio del suo tempo, ma ha saputo anche essere interprete della modernità e del cambiamento. Aveva un interesse quasi morboso per il periodo 1939-45, ma non lesinava sugli autori più contemporanei.

La sua creatività rientrava nell’ordine di una speculazione meditativa definita da periodi di assenza, in cui non desiderava essere disturbato. Avrei voluto che viaggiassimo insieme, io che ho sempre accordato al vagabondare un’energia creatrice, ma lui non amava viaggiare; preferiva osservare il mondo e farselo raccontare dai suoi libri, comodamente seduto in salotto, dimostrando che l’atto creativo non può essere prescritto. Mio padre era così: a modo suo. Ora più che mai mi mancheranno le nostre esplorazioni della biblioteca di casa, ognuna delle quali è stata non solo un momento d’intimità tra un padre e una figlia, ma anche un formidabile giro intorno al mondo.   

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